PASSI DI RICERCA

ComunicAutore

Giornalista

SEO Copywriter

Mercoledì 5 gennaio 2022

#6

“Oggi volevo parlarti di luoghi, territori, spazi e di come, facendo impresa, dovremmo prefiggerci di reinterpretarli, migliorarli, dare loro un’anima. Una sfida affascinante, giusta e perché no, interessante anche sotto l’aspetto del branding”.

I luoghi sono racconti

Caro Diario,

Concorderai con me che l’impresa, quando e se fatta come si deve, è prima di tutto un fatto sociale. Adriano Olivetti provò a dircelo quasi 70 anni fa, quando in un celebre discorso datato 1955, pronunciò una frase che ancora oggi contiene le basi da cui partire per poter fare impresa in termini di responsabilità sociale: “Può l’industria darsi dei fini?”

Quel discorso incarnava un’idea precisa: quella di un mondo dove la fabbrica non guarda solo all’aspetto economico ma viene chiamata a svolgere un esercizio di mediazione tra le aspirazioni dei singoli e il loro bisogno di sentirsi comunità. È da questa premessa romantica che oggi volevo partire per parlarti di luoghi, territori, spazi. Di come, facendo impresa, dovremmo prefiggerci di reinterpretarli, migliorarli, dare loro un’anima. Una sfida affascinante, giusta e perché no, interessante anche sotto l’aspetto del branding.

Dove voglio arrivare? Innanzitutto, ti dico che questa riflessione è nata a seguito delle tante novità che stanno riguardando Scritte nell’ultimo periodo. Guardando indietro, la mente è tornata a quando Jepis annunciò per la prima volta che, dopo mesi di sperimentazione, il packaging del progetto sarebbe cambiato. Per rimarcare maggiormente la provenienza del prodotto, infatti, ai lati delle scatole in legno ci sarebbe stata una dicitura più specifica: “Fatte a mano a #Cip, Caselle in Pittari, Cilento”, con tanto di skyline sullo sfondo. Una scelta, quella di confinarsi, che in prima istanza mi aveva lasciato un po’ perplesso.

Col senno di poi, il tentativo di sottolineare meglio e più di prima l’origine dei propri “manufatti narrativi” (oggi li chiamiamo così, ma di questo magari approfondiamo un’altra volta) si rifaceva all’idea di porre le basi per un primo, timido approccio di place branding. Un approccio dove idealmente #Cip – che già sotto forma di hashtag contiene in sé l’indole per poter rappresentare un ottimo punto di partenza per una eventuale strategia di corporate identity – non si sarebbe più limitata ad essere l’epicentro del progetto e della comunità che lo alimentava, ma avrebbe fatto sua la dicitura di “luogo del lavoro ben fatto”. 

Pensare, un giorno, di poter accostare #Cip sulla stessa lunghezza d’onda di posti quali Gerusalemme (“La Città Santa”) o Las Vegas (“La capitale mondiale dell’intrattenimento”) fa sorridere, eppure gli elementi per un processo di brandizzazione del luogo non mancano. Di questo ne ho discusso anche con Vincenzo Moretti, che mi ha confessato di aver strizzato l’occhio a riguardo già a partire dal 2013, da quel libro che per la prima volta ha portato la parola “#Cip” all’attenzione del mondo. All’epoca il mentore delle storie di Scritte propose di sostituire il cartello di benvenuto standard con uno del tipo: “Benvenuti a Caselle in Pittari: il paese del lavoro ben fatto”. Una proposta arrivata anche all’orecchio delle istituzioni locali, ma mai veramente approfondita a dovere.

Un vero peccato. Perché, per quanto possa essere stato prezioso il suo tentativo di lasciare il segno, solo un coinvolgimento diretto delle istituzioni potrebbe dare la possibilità di mettere in piedi un progetto serio. Dopotutto, brandizzare un luogo non significa soltanto creare un logo e un claim. Significa, piuttosto, intraprendere una serie di azioni coordinate, di medio-lungo termine, che possano restituire a quel luogo una coerenza e una condivisibilità che facciano da vettori di relazione con le persone che quel luogo lo vivono, lo frequentano o lo immaginano stando a centinaia di chilometri di distanza. Fare place branding significa scoprire, creare, sviluppare e realizzare idee e concetti in grado di definire l’identità, i tratti distintivi, il genius loci di quel luogo, per costruirne un senso complessivo. Per un processo del genere non bastano loghi, hashtag e storie, ma servono infrastrutture, investimenti e organizzazione.

Già che siamo qui, parlando di luoghi e di brand, ne approfitto per introdurre un altro tema. Tempo fa, al termine del lavoro di tesi, pronosticai la nascita di una macro-bottega. In pratica, di una struttura interamente dedicata a Scritte, con i diversi spazi ognuno adibito ad una singola attività e con tanto di sala d’attesa per i consumautori, fatta di pareti a effetto lavagna e mensole colme di libri. Insomma, una sorta di “Mondo di Scritte” dove poter lavorare, discutere, confrontarsi o anche soltanto accogliere i più curiosi per una chiacchierata. Mesi dopo, con la ristrutturazione della Jepis Bottega mi sembra sia stato fatto un passo importante in tal senso, con la suddivisione dello spazio in due lati: uno per forgiare le storie (Beta) e un altro per accoglierle (Alpha).

Insistendo di più in ottica macro e sul tema dello space design (inteso come quel processo atto a plasmare un ambiente per renderlo manifestazione coerente dei valori di un brand), quando mi fu chiesto di strutturare una proposta per il progetto senza pormi limiti di budget e facendo viaggiare al massimo la fantasia, la prima cosa che mi venne in mente furono i parchi a tema Disney. Ripensare l’esperienza del progetto in grande scala mettendo in piedi uno “Scritteland” e dando la possibilità al consumautore di vivere davvero un viaggio in un spazio fisico a parte, con delle regole e degli ideali propri, rimarrà un mio pallino per lungo tempo.

Tutto lavoro sprecato perché irrealizzabile? Secondo me la fai troppo tragica. Ti dirò, anzi, che qualcosa in direzione di Scritteland si sta muovendo. Forse non avremo mai un enorme parco a tema, ma la suggestione è quella di ricostruire l’esperienza del progetto per provare a riposizionarlo in un’ottica, se possibile, ancora più artistica. Ma di questo, magari, ti racconto la prossima volta. Tu intanto resto connesso. A presto.

Venerdì 10 dicembre 2021

#5

“Una volta che si impara a non demonizzarli, gli errori si possono trasformare in opportunità. Questo accade quando l’errore è frutto di una sperimentazione, di un’esplorazione ignota delle possibilità che, prima o dopo, potrebbero tramutarsi in scelte vincenti”.

Trasformare gli errori in opportunità

Caro Diario,

Ma tu lo sapevi che prima di arrivare alla lampadina Thomas Edison fece migliaia di esperimenti fallimentari? Che quando Cristoforo Colombo scoprì l’America in realtà era convinto di sbarcare nelle Indie? Che pure Leonardo Da Vinci, genio totale, è diventato celebre anche con – se non addirittura grazie a – i suoi errori? Sì, lo so che questo fare ruffianesco non ti piace per niente, ma dammi il tempo di spiegare.

C’è una frase appartenente a Napoleon Hill che centra perfettamente con quanto successo in quest’ultima parte del nostro progetto di ricerca: “L’opportunità spesso si presenta camuffata in forma di sfortuna o di sconfitta temporanea”. Certo, detto così non significa niente. Può sembrare, anzi, una scusa per non prendersi le proprie responsabilità fino in fondo. Il fatto è che, una volta che si impara a non demonizzarli, gli errori si possono trasformare in opportunità. Questo accade quando (come nel mio caso) l’errore è frutto di una sperimentazione, di un’esplorazione ignota delle possibilità che, con i giusti accorgimenti, prima o dopo potrebbero tramutarsi in scelte vincenti.

Vengo al dunque: dopo l’attività di collaborazione con gli influencer, sono tornato in versione ricercatore e ho preparato un altro test. Ricordi quello dell’altra volta? Bene. In quel caso il sondaggio era rivolto all’esterno e ci serviva a stabilire il delta tra la brand identity (ciò che è e che vorrebbe essere) e la brand image (ciò che i consumatori credono sia) di Scritte. Stavolta invece, di numero molto più ristretto, sarebbe stato destinato ai soli consum-autori, quelli che nel corso di questi mesi avevano già vissuto l’esperienza, e avrebbe avuto l’intento di misurare il loro grado di soddisfazione.

Succede quindi che mi metto al lavoro. Ne viene fuori un modulo pieno di domande lunghe, spesso aperte, alcune fin troppo cerebrali. Mi convinco però che è quello l’unico vero modo per raccogliere quanti più dati possibili. Dati che poi avrei reinterpretato in un report di secondo livello. Alla prima revisione di gruppo Jepis sembra soddisfatto, mentre Vincenzo non nasconde il suo scetticismo: “Una cosa del genere mi spingerebbe a non voler più seguire il progetto”, tuona. Ascolto il suo consiglio, ma solo in parte: riformulo quello che posso ed elimino giusto un paio di domande, senza operare veri stravolgimenti. La mia convinzione è che, essendo quella di Scritte una fanocrazia, non dovrei preoccuparmi più di tanto: a costo di perdere anche dieci minuti della propria giornata, i clienti-fan del progetto sicuramente avrebbero risposto al test per farci un favore.

Spoiler: non è andata così. Jepis mi passa una lista di contatti dei consum-autori più fedeli. Si tratta di circa 50 mail. Pronostico un minimo di 30, se non 35 risposte e mi do un mesetto di tempo per veicolare il sondaggio. Ad una settimana di distanza dalla prima somministrazione via posta elettronica, le risposte ottenute sono 7. Dopo il primo sollecito diventano 12. Dopo il secondo, 14. Dopo il terzo… restano 14. A quel punto mi fermo: inutile andare avanti.

Prima di parlare ai miei compagni di viaggio della disfatta però, provo a darmi una spiegazione. Non ci metto molto: il mio è stato un errore d’approccio. Dando ormai per scontata la disponibilità del fandom di Scritte, ho cercato un contatto in maniera aggressiva, abbandonando di colpo la modalità H2H che avevo adoperato nelle precedenti attività e rischiando, tra l’altro, di creare un danno reputazionale al brand siccome stavo agendo a suo nome. Come ho trasformato l’errore in opportunità? Tornando immediatamente ad applicare, nel mio nuovo ruolo da tutor della Piccola Scuola Bottega – Crea Racconta Ricrea, un approccio fortemente relazionale. Un approccio di persona che vuole parlare alle persone, con gentilezza e professionalità, avendo l’obiettivo di costruire un dialogo.

Tornando al pratico: dopo aver informato Jepis e Vincenzo dei numeri esigui, organizziamo comunque una call di recap e, nonostante il feedback scarno non ci permetta grosse valutazioni, riusciamo comunque a tirare fuori degli spunti interessanti. Dopo il test ci soffermiamo anche sull’analisi euristica che, in attesa delle famose risposte, avevo realizzato nell’ottica di un miglioramento dell’usabilità del blog da cui ora ti sto scrivendo. Nel complesso, posso dire che questa riunione conclusiva del progetto di ricerca sia stata molto positiva.

Come dici? È finita qui? In verità no. Le idee emerse da questo brainstorming, unite alle novità già in programma messe a punto dai founder, mi hanno convinto che nel 2022 ci sarebbero ancora tante cose da fare. Quindi, perché fermarsi? Dopotutto sento di poter dare ancora qualcosa a Scritte. Se posso lasciarti con qualche anticipazione? Mi sa di no, devo chiederti di pazientare. Il fatto è che non vorrei sbilanciarmi troppo. Alla prossima.

Lunedì 18 ottobre 2021

#4

“Seminare con costanza, infatti, anche se il terreno può sembrare poco fertile, è il modo migliore per alimentare e consolidare una comunità intorno alla quale costruire i propri progetti”.

L’importanza della semina

Caro Diario,

Devi sapere che sono mesi che mi batto su un concetto secondo me fondamentale per chi punta a fare impresa in maniera generativa: l’importanza della semina. Seminare con costanza, infatti, anche se il terreno può sembrare poco fertile, è il modo migliore per alimentare e consolidare una comunità intorno alla quale costruire i propri progetti. Dove voglio arrivare? Te lo spiego subito.

Quando sono venuto a conoscenza di Scritte, la prima cosa che mi sono detto è stata: “Funziona perché i founder sono anche dei piccoli leader. Negli anni hanno saputo crearsi una credibilità intorno a sé, hanno seminato da artisti. A distanza di tempo ne sono ancora più convinto: qualcun altro al posto di Jepis e dei suoi collaboratori (con “qualcun altro” intendo qualcuno poco avvezzo alla semina), a parità di mezzi, budget e business model, si sarebbe fermato ancor prima di iniziare, non potendo riscontrare lo stesso entusiasmo di partenza.

Un’organizzazione fanocratica di questo tipo però, per diventare sostenibile economicamente, ha la necessità di essere allargata nel tempo. Ergo, per quanto inizialmente fosse affascinante, la tribù di Scritte doveva essere resa più corposa. Ma in che modo? Da qui viene fuori, in una videocall di inizio estate, l’idea di Jepis che avrebbe potuto aiutare ad accelerare un po’ i tempi: scovare dei micro-influencer interessati a camminare con le proprie storie e regalare loro l’esperienza di Scritte. In cambio questi avrebbero parlato del progetto alle proprie community, facendo da cassa di risonanza. Insomma, avrebbero seminato al posto nostro su un orto parecchio fertile.

A leggerci, Seth Godin potrebbe rimanere deluso. In un’intervista a Il Sole 24 Ore di qualche mese fa aveva criticato gli influencer, definendoli “hacker egoriferiti” le cui promozioni, sul lungo periodo, non generano né attenzione né fiducia. Una visione però smentita in qualche modo da una recente ricerca realizzata da Buzzoole, InfoValue e Mondadori Media denominata “Italiani & Influencer”, secondo la quale 20 milioni di italiani (praticamente uno su tre) ne seguono almeno uno. Di questi, il 48% segue almeno un macro-influencer. E, cosa più importante, la metà degli intervistati ha dichiarato di aver comprato una media di due prodotti o servizi consigliati dagli stessi. Quindi, chi ha ragione? La verità probabilmente sta nel mezzo. Da un lato fa bene il guru del marketing a sottolineare che alla base di tutto dovrebbe esserci un continuo esercizio di creatività. Dall’altro lato però legarsi a persone con un seguito così ampio significa poter guadagnare una spinta verso l’alto (magari più effimera, ma pur sempre una spinta).

Andando all’atto pratico: a partire dallo scorso agosto ho cominciato a sondare un po’ il terreno, soprattutto su Instagram, alla ricerca di opinion leader che potessero essere “in tema” con gli intenti e i valori del progetto. Dopo aver tracciato una serie di profili interessanti, ho provato a creare un contatto tramite Direct con alcuni di loro. Qui sono venute fuori le prime difficoltà del doversi approcciare a persone esterne alla comunità e che non conoscevano Scritte. Preso dalla foga e dall’entusiasmo del momento, ho finito per bruciare una serie di possibilità, ritrovandomi di fronte a diversi tentativi andati a vuoto. Lì mi sono reso conto di dover cambiare strategia: di comune accordo con Jepis e soci, ho messo nero su bianco un “messaggio pilota”, breve e conciso, che fosse in grado di spiegare il come, il cosa e il perché. A quel punto l’ho utilizzato per mettermi in contatto con altri profili, stavolta tramite e-mail, convinto del fatto che una comunicazione asincronica, indiretta e quindi meno invasiva non ci avrebbe fatto apparire come “spam”. 

Questo secondo approccio si è rivelato vincente, almeno per quanto concerne lo sviluppo di un primo contatto preliminare. Una buona percentuale di profili, infatti, ci ha risposto, ma poche volte la collaborazione è andata a buon fine: alcuni ci hanno educatamente informato di voler declinare la proposta, perlopiù per questioni di feed o community, secondo loro distanti da quello che gli stavamo proponendo; altri hanno confermato di essere interessati, salvo poi non rifarsi più vivi alla prima sollecitazione più concreta per iniziare l’esperienza; con altri ancora c’è stato addirittura un contatto telefonico, ma anche questi col passare dei giorni sono spariti.

Per farla breve, questo lavoro ha dato vita a tre collaborazioni. La prima con Mattia Ippolito, in arte The Books’ Harmony, che ha voluto lanciare un bel messaggio: “Sii il tuo perché”. La seconda con Elena Giorgi, in arte La lettrice geniale, che ha raccontato del suo amore per la natura, riassunto nella frase “Sogno sempre le montagne”. La terza con Giulia Ciarapica, che sulle scarpe si è fatta incidere direttamente il titolo del suo primo romanzo pubblicato per Rizzoli: “Una volta è abbastanza”, con tanto di penna e martello.

A questo punto ti starai chiedendo: e quindi, com’è andata la semina? Ha funzionato? Ha portato a risultati concreti? Ci tengo a sottolineare, anzitutto, che “a volte si campa anche di soddisfazione”, come direbbe il nostro mentore delle storie, Vincenzo . Sì, perché la soddisfazione è stata enorme quando abbiamo visto che Giulia, Elena e Mattia hanno fotografato e filmato le proprie scarpe scritte per raccontarle con entusiasmo sui propri canali. E mi viene da dire che, pure se non dovesse arrivare nessun riscontro concreto, ne sarebbe valsa la pena anche solo per questo. Sto mettendo le mani avanti? No, non direi. Semplicemente ad oggi non posso darti una risposta definitiva: bisognerà capire nelle prossime settimane se la loro semina sarà riuscita a regalarci nuovi frutti.

Detto questo, abbiamo deciso di mettere un po’ da parte il discorso influencer per lasciare spazio ad altre attività. Come dici? Perché tutto questo tempo tra una task e l’altra del progetto di ricerca? Hai ragione, ma sono successe un po’ di cose negli ultimi tempi. Tanto per dirtene una, a metà settembre sono stato a Cip per discutere con i founder di Scritte di una cosa a cui tengo molto. Sì, lo so che vuoi saperne di più, ma per il momento non posso dirti altro. A presto!

Sabato 31 luglio 2021

#3

“Tutti dovrebbero impegnarsi a raccontare il proprio perché. Sì, anche Scritte dovrebbe farlo. Ed anzi, ti dirò di più: tale convinzione l’ho avuta ancor prima che partisse questo percorso di ricerca”.

Raccontare il proprio perché

Caro Diario,

È da un po’ di tempo che insisto sull’importanza del raccontare il proprio perché. Il perché delle persone, così come quello delle organizzazioni e delle comunità, potrebbe essere uno strumento fondamentale per creare connessioni, ottenere tempo ed attenzione e provare a ritagliarsi uno spazio nel mondo. Tutti dovrebbero impegnarsi a raccontare il proprio perché.

Sì, anche Scritte dovrebbe farlo. Ed anzi, ti dirò di più: tale convinzione l’ho avuta ancor prima che partisse questo percorso di ricerca. Dalla prima volta che mi sono interfacciato a Scritte, infatti, mi sono chiesto se persone estranee alla sua comunità abituale (prima fisica e poi digitale) sarebbero state in grado di “decifrarne” gli intenti. 

In sostanza, c’era un problema di fondo: né sui social, né qui sul blog, Scritte aveva raccontato bene il suo perché. A quel punto l’ho fatto presente all’interno della tesi di laurea, suggerendo ai founder una formula di Brand Positioning Statement inspirata al libro di Marco De Veglia. Probabilmente non lo sapevi, ma è proprio da quella mia proposta grezza che poi è nata, qualche tempo dopo, la sezione “Chi Siamo” che ora vedi sul blog.

Quello è stato un buon passo avanti, certo. L’identità di marca del progetto però continuava ad essere poco chiara, come riscontrato dal sottoscritto direttamente on field. Nel corso delle settimane, infatti, confrontandomi con amici e colleghi, troppo spesso mi sono sentito dire: “Sì ti sto seguendo, ma non ho ancora capito di cosa vi occupate… vendete scarpe personalizzate?”. Tante volte mi sono ritrovato a dover spiegare il come e il cosa, ricevendo sguardi amletici in risposta al mio entusiasmo dilagante. Quegli sguardi volevano significare una cosa del tipo: “E quindi? Cosa ci sarebbe di così eclatante?”. Poi ho capito: questo succedeva perché non raccontavo in maniera adeguata il nostro perché, il perché di Scritte. Il perché era l’elemento che avrebbe potuto fare la differenza.

Da lì viene fuori l’idea: bisognava somministrare un sondaggio con domande poco convenzionali e che ci aiutasse, tramite dati concreti, a riscontrare questa effettiva “falla” di percezione intorno al mondo di Scritte. Ma non solo: un’operazione di diffusione di questo tipo ci avrebbe permesso anche di far conoscere il progetto ad un pubblico diverso dal solito. Insomma, due piccioni con una fava.

E così è stato: nelle ultime tre settimane mi sono impegnato prima a realizzare e poi a far girare (con la collaborazione di Jepis e Vincenzo Moretti) questo test privo di risposte esatte e che chiedeva agli intervistati di riflettere dando riscontri quanto più soggettivi possibili. Ne sono venuti fuori un bel po’ di dati curiosi, ne snocciolo qualcuno: il 56,8% degli esaminati è convinto che Scritte sia una piccola impresa che realizza e vende prodotti artigianali. Allo stesso modo, il 50% crede che gli artigiani di Scritte siano dei produttori di beni fatti a mano. Il 60,8% pensa che il progetto sia “interessante”, mentre il 25,5% lo considera addirittura “geniale”.

Oggi che ho chiuso ufficialmente il test posso dire che l’esperimento, a metà tra ricerca quantitativa e qualitativa, ha dato i suoi frutti. Da un lato ci siamo divertiti a commentare i risultati, dall’altro abbiamo avuto una conferma a livello statistico delle nostre impressioni: non a tutti è chiaro il come e il cosa ma, soprattutto, pochi hanno percepito il nostro perché, il motivo per cui Scritte è nato e sta cercando di differenziarsi dalla concorrenza. Il nostro compito, nei mesi a venire, sarà proprio quello di rendere il perché del progetto più chiaro, magari partendo da una rivisitazione della homepage del blog, che ha la colpa di essere poco “immediata”. 

Arrivato a questo punto, riflettevo su un’altra cosa: alcuni sottovalutano l’importanza di raccontare il proprio perché, ma sono ancora più numerosi quelli fermi allo step precedente. Mi riferisco a quelle persone, organizzazioni e comunità che il proprio perché non l’hanno nemmeno scoperto, messo per iscritto. A tal proposito, insieme a Vincenzo Moretti, qualche tempo fa (a questo link) discutevo della possibilità di utilizzare il racconto d’autore come via alternativa per trovare il proprio perché. Il modello teorico sembra stare in piedi, bisognerebbe solo fare pratica per capire se può funzionare. Dopotutto, anche questo è un modo per fare ricerca. Come dici? Sto divagando? Sì, mi sa che hai ragione, magari su questo ci torniamo meglio un’altra volta, per oggi va bene così. Alla prossima.

Mercoledì 30 giugno 2021

#2

“Qui a Scritte non si copia, si ruba da artisti, che non è per niente la stessa cosa”.

Non è copiare: è rubare da artisti

Caro Diario,

Torno a scriverti innanzitutto per sfatare un mito: nulla di ciò che ci circonda è originale. Sì, perché se ci pensi tutte le opere creative, qualsiasi esse siano, si fondano sempre su ciò che è venuto prima, senza che niente possa essere originale per davvero. Come mai questa premessa “catastrofica”? Tra un attimo ci arriviamo, andiamo per gradi.

Dopo una settimana di preparazione, lunedì scorso partiva ufficialmente la mia attività di ricerca. Ebbene, in questi ultimi dieci giorni mi sono impegnato a fare benchmarking, cioè a studiare la concorrenza per trarre dei possibili spunti utili in ottica Scritte. La prima cosa che ho notato nel corso del lavoro è stata la presenza di tanti, troppi brand potenzialmente competitors. Motivo per cui, prima ancora di approfondire, ho ritenuto importante operare una segmentazione. Nella mia analisi, infatti, avrei considerato soltanto brand italiani che facessero delle scarpe personalizzate il loro core business e che tali scarpe non fossero troppo settoriali (scarpe da cerimonia, da danza, da calcio e così via).

Insomma, per non entrare troppo nello specifico, ho ridotto l’analisi a 24-25 brand competitors. Leggendo, cliccando e curiosando su siti e social media di tali concorrenti, ho annotato una serie di idee interessanti. Idee che ho anticipato di giorno in giorno a Jepis e a Vincenzo Moretti, prima che arrivassimo a discuterle nel dettaglio durante un briefing conclusivo. Idee che, prima o dopo, verranno messe in atto anche da Scritte (e su questo non posso dirti altro, lo scoprirai da solo nelle prossime settimane).

A questo punto, posso immaginare a cosa starai pensando: la premessa era per mettere le mani avanti, perché abbiamo intenzione di copiare da chi fa il nostro stesso mestiere. E no, mi offendo. Qui a Scritte non si copia, si ruba da artisti, che non è per niente la stessa cosa. Non ti ho convinto? Mi spiego meglio: il copiatore seriale è colui che raccatta idee a destra e a manca, senza fare distinzioni. Uno così però non va molto lontano. L’artista copiatore invece studia, confronta, è selettivo. Alla fine porta a casa solo quelle idee per cui vale la pena di rubare, perché per lui rappresentano nuove fonti d’ispirazione.

È partendo da questo presupposto che, come ti dicevo, nulla è davvero originale. Sì, hai capito bene: anche Scritte, altro non è che un rimescolamento ragionato e consapevole di diverse idee già preesistenti, chiaramente organizzate secondo un’ottica alternativa, insolita, unica. A proposito, c’è una cosa che non ti ho ancora detto. Una cosa che avevamo già intuito prima ancora che partisse quest’avventura, ma che ora possiamo affermare con certezza, perché riscontrata sul campo: di tutti questi brand che fanno custom, nessuno si preoccupa di raccontare storie. Per Scritte, invece, le scarpe e le borse sono solo media insoliti su cui veicolarle, perché ciò che conta davvero è l’esperienza da far vivere a quello che io ho definito il “Consum-Autore” e non il prodotto finale.

Sotto questo punto di vista direi che Scritte sguazza ancora in un oceano blue anzi, che difficilmente le cose cambieranno, almeno nel futuro prossimo. Certo, parliamo di un progetto che ha i suoi difetti e ne deve fare ancora di strada per potersi pensare su larga scala, ma che al tempo stesso ha dei valori ben distinti dal resto del mercato. Li trovi riassunti in una frase di Vincenzo Moretti, risalente a qualche giorno fa: “Noi con Scritte mica ci dobbiamo fare la villa al mare, vogliamo solo fare felici un poco di persone”. Ti potrei dire molto altro ma per oggi mi fermo qui, a presto.

Domenica 20 giugno 2021

#1

“Così dalle piccole cose (derivano) grandi cose”.

Sic Parvis Magna

Caro Diario,

Mi piaceva aprire questa nuova avventura con e per Scritte chiamando in causa il celebre motto di sir Francis Drake, corsaro del XVI secolo partito da una semplice famiglia inglese e diventato cavaliere della regina Elisabetta I. Io non attraverserò mari e oceani, ma nei prossimi sei mesi proverò a decostruire e ricostruire i modi, le tendenze, la mentalità di questo progetto. I piedi sono ben saldi a terra, come sempre, ma l’ambizione deve essere tanta.

Nel peggiore dei casi dovrò lasciare un contributo, una testimonianza, a Scritte, fatta di punti di domanda, pensieri e idee da tenere nel cassetto. Nel migliore, dovrò convincere Jepis e compagni d’avventura a ripensare Scritte da zero, sotto l’aspetto del prodotto, del processo, del modello di business: sarà questo il mio El Dorado a cui tendere, senza pirati o mappe del tesoro ma munito di pc, curiosità e attitudine a fare arte.

I punti all’ordine del giorno sono stati già discussi mercoledì scorso, nella prima call in qualità di ricercatore e non più studente. Le basi sul come e dove lavorare ci sono, l’entusiasmo anche. In questi primi giorni mi sono occupato di organizzare il tutto, stabilendo tempi e modi, con un diagramma di Gantt ed un’infografica. Ho pensato anche di realizzare una copertina apposita per questo angolo di ScritteLab che useremo per raccontarti il processo di ricerca ma anche per riflettere, per segnare gli spunti più interessanti, per provare a creare connessioni tra argomenti, cose, persone.

Insieme a Jepis e a Vincenzo Moretti abbiamo scelto di darti un titolo molto in tema: Passi di ricerca. Sì, perché quelli che ti racconterò da oggi in avanti saranno i passi di un lungo percorso. Passi che, si spera, possano diventare orme da seguire e ripercorrere per chi verrà dopo di noi.

Insomma, caro diario, direi che la fase di preparazione può dirsi conclusa, ora la macchina può partire. Sto per entrare nel magico loop del “gioco infinito”. Non so ancora bene cosa mi aspetta ma ti assicuro che non vedo l’ora di salpare.